Baba Yaga

Una farfalla con le ali insanguinate

Satanik

Troppo il peso di questo classico del fumetto nero sulle ossa leggere di Magda Konopka.

Nel 1968 Piero Vivarelli porta sul grande schermo le avventure della rossa del diavolo, raccogliendo per lo più qualche sbadiglio e – a posteriori – qualche tiepido applauso. Girato in co-produzione con la Spagna, il film rivede e corregge la storia della  scienziata sfigurata che, attraverso una magica metamorfosi, si trasforma in una dark lady seducente, dissoluta  e cattivissima, affamata di gloria, danaro e ricchezze, creando una figura lontana dallo spirito del fumetto, che, nonostante qualche timido guizzo, finisce con il perdere gran parte del  fascino nero che  ne aveva fatto la fortuna.

Il personaggio ideato da Max Bunker e Magnus ripropone il classico dualismo Jeckyll & Hide, con le dovute correzioni del caso. Satanik è una donna attraente e pericolosa, che non ha scrupoli a usare il suo corpo per proprio tornaconto. La sua figura è stata un punto di arrivo nel mondo dell’editoria, nonchè chiave di volta del fumetto erotico. Il debutto arriva nel 1964, sulla scia degli altri “cattivi con la K”, come Diabolik e Kriminal, virando fin da subito le atmosfere più su temi orrorifici che polizieschi. Nella sua conversione in celluloide, la storia però si annacqua in una  rassicurante spy story, con tanto di inseguimenti tra guardie e ladri. Senza il suo nero ascendente e la sessualità di fondo che aveva fatto la fortuna degli albi e bollinato la sexy antieroina come antesignana del “fumetto per adulti”, la Satanik in carne e ossa si presenta come una donna sì opportunista, senza remora alcuna nel ricorrere all’omicidio, ma risulta al tempo stesso troppo banalizzata da una sceneggiatura non particolarmente felice, perdendo così gran parte dell’ascendente malefico della creatura dell’Editoriale Corno.

Nel film non ci sono nè vessazioni familiari nè tantomento cicatrici da sanare. Marnie Bannister non è più la brillante scienziata in grado di creare una formula miracolosa basata sulle teorie del fantomatico alchimista Masopust, ma una semplice ricercatrice di mezza età, brutta e malmessa, al servizio del professor Greeves, brillante luminare impegnato nella ricerca di un siero capace di rigenerare le cellule. Dopo aver assistito al successo che questa scoperta ha avuto su alcune cavie, la zitellona uccide il lo scienziato e trangugia il contenuto della fiala: ripresi i sensi si ritrova con le fattezze della Konopka e un impeccabile servizio di trucco e parrucco.

Inizia così la seconda vita della Bannister: Satanik – nome peraltro mai citato nella pellicola – è una donna tanto misteriosa quanto affascinante, a caccia di buoni partiti da sfruttare economicamente e sessualmente. Da Madrid a Ginevra con la polizia alle costole, la perfida fanciulla mostra chiaramente che il male non è prerogativa esclusiva del brutto. La contrapposizione Jeckyll/Hide è il leimotiv della pellicola, poichè l’effetto della pozione di Greeves è solamente temporaneo. Satanik, sedotta dal potere che il suo nuovo aspetto fisico le ha donato, non ha problemi a eliminare fisicamente chiunque scopra la verità.

Sfortunatamente la storia imbastita da Vivarelli si sfilaccia man mano che il finale – un po’ troppo scontato – si avvicina, perdendo così l’occasione di dare forma concreta a una delle cattive di carta più cinematografiche mai realizzate. Senza mai spingersi più il là dello stretto necessario, in questi 84 minuti, le avventure della nostra strega risultano piuttosto insipide e non sempre del tutto comprensibili, mancando totalmente le atmosfere cupe del fumetto. Priva della sua componente più sanguinaria, questa criminale fulminata dalla moda sixties non si prende mai troppo sul serio: sesso e crudeltà più spietata si muovono forse a una velocità troppo alta, che lo stesso regista – già alla corte di Fulci – ha preferito non sperimentare.

Così, diversamente dall’auto su cui viaggia la protagonista, si ha l’impressione che il film sia spinto con il freno a mano tirato, appesantito anche da una certa povertà di mezzi. Tra un Fernet Branca e l’altro, i delitti della bella Satanik turbano il sonno solo all’ispettore Trent (Julio Peña), deciso a scoprire il segreto di Marnie Bannister, ma il risultato finale è quello di un bizzarro giallo a tinte pop, con molti buchi di regia disseminati qua e là. Madga Konopka è un’efficace assassina un po’ legnosa, felice di denudarsi del suo costume simil Diabolik, anche se la libertà sessuale di Satanik era ben altra cosa.

Gatti rossi in un labirinto di vetro

La rogna peggiore per i felini di Lenzi è di non avere a diposizione le canoniche sette vite, tipiche della specie.

Forte di questo non poco trascurabile particolare lo psicotico assassino di turno avrà vita abbastanza facile fino alla resa dei conti finale. Il prolifico regista con queste premesse realizza nel 1975 il suo giallo “classico”, dopo le ottime prove di Paranoia del 1970 e Sette Orchidee Macchiate di Rosso del 1972.

Una svista trasforma in gatti gli impermeabili – rossi – dei sospetti, diventando così, il tema conduttore delle indagini, affidate al commissario Tudela (Andrés Mejuto) alla sua ultima settimana di servizio prima della pensione. Per darsi finalmente alla pesca a tempo pieno, il vecchio poliziotto è così costretto a a fare i conti con una serie di efferati delitti che si concentrano intorno a una singolare comitiva di americani in gita a Barcellona, un gruppo male assortito in cui tutti sono potenziali assassini e nessuno sembra risultare davvero innocente. Una guida turistica con un odioso senso dello humor, un prete taciturno e solitario, una sensuale modella lesbochic e poi via via tutti gli altri, sono gli indiziati del caso. Un cluedo in terra di Catalogna, dove ogni personaggio potrebbe muoversi nell’ombra per eliminare i propri compagni di viaggio. Ma la verità è che l’assassino colpisce sempre con un proprio sadico rituale: le vittime preferite delle coltellate inferte da una misteriosa mano guantata di rosso sono sempre giovani e belle ragazze, a cui viene cavato l’occhio destro.

A complicare le cose ci pensa John Richardson che presta fisico e monoespressività al personaggio di Mark Burton, pubblicitario di successo nonchè amante della signorina Paulette Stone (Martin Brochard) – sua segretaria e partecipante del truculento viaggio – perennemente coinvolto nella scena del crimine e, guarda caso,  sospettato numero uno dalla polizia spagnola. Con il disagio di una moglie malata di nervi e continui flashback di un ricordo fuori fuoco che potrebbe fornirgli la pista giusta, Burton cerca con insistenza di scoprire l’identità dell’assassino giocando al ruolo del detective fai da te. Il suo timore principale è che dietro la catena di omicidi ci sia proprio la mano della moglie Alma, sfuggevole presenza di Barcellona che il regista ci presenta all’inizio del film in partenza per la città iberica. Come uno spettro la figura della donna è sempre irraggiungibile per il marito, fino a quando una fotografa riesce a catturare con il proprio obiettivo il particolare “giusto”, pagando naturalmente con la vita il suo eccesso di zelo.

Lenzi seleziona con mestiere gli elementi tipici del giallo, sfruttando in pieno il modellino vincente alla Argento. In più, ne arricchisce la struttura con scelte ancora inedite, come gli omicidi compiuti alla luce del sole e, benchè fuori campo, una certa efferetezza di fondo. I delitti non sono più consumati nottetempo, in tetre ville isolate o in luoghi fumosi e poco rassicuranti, una buona dose di sanguinolenza viene offerta al pubblico nella tranquillità del giorno. Tra situazioni grottesche e suggestioni saffiche, il protagonista si affanna alla ricerca della verità, tormentato dal suo ricordo imperfetto, fino alla rivelazione finale. Sostenuta da una efficace colonna sonora, la pellicola scorre con ritmo, cosa non comune per i canoni del tempo, facendosi perdonare qualche falla qua e là nella sceneggiatura. Nonostante una motivazione di fondo un po’ forzata, da ricercarsi naturalmente nel classico trauma giovanile, scoprire finalmente il volto dell’assassino è, come sempre, una conclusione che si vorrebbe quasi non arrivasse mai.

PS. Postilla d’obbiligo per la presenza cult, nei paffuti panni di Jenny Hamilton, di una giovane Veronica Miriel, ovvero la Marisol di Un Sacco Bello (1980), prima di scoprirsi completamente al fascinoso mondo dell’eros.

Riti, magie nere e segrete orge nel Trecento

 Poche idee ma confuse. Quando la sottile arte di arrangiarsi di Renato Polselli sposa l’idea di un film sulle credenze popolari, il tutto si risolve come un’immensa puttanata. Il regista, sotto la copertura del nome d’arte di Ralph Brown, con proverbiale mano maldestra dirige il suo allegro gruppo di fedelissimi – il monolite Mickey Hargitay, la sexy musa Rita Calderoni e il prode Raoul Lovecchio – in un intreccio tanto disordinato quanto caotico. “Riti, magie nere e segrete orge nel Trecento” è l’apice dello sperimentale oltre ogni senso logico in un mattone visivo con tanto di musica da festino hard e gemiti in sottofondo.

Nel castello presumibilmente maledetto di cui il granitico Jack Nelson (Hargitay) ha appena acquistato un’ala, si muovono strani figuri votati all’empietà. L’unico consapevole del sinistro passato del maniero è l’altro proprietario, il sulfureo e baffuto occultista (Raoul). Secoli or sono, lo stesso luogo è stato teatro della cruenta morte di Isabella, sensuale strega e forse vampira – a dispetto di una dentatura ineccepibile – interpretata dalla Calderoni. La sua dolorosa fine era stata decretata perchè ritenuta, a torto o ragione che sia, sposa di Satana. Il pestilenziale elemento della società viene mandato al rogo dai suoi compaesani, che ben pensano comunque di denudarla e trafiggerla tra le tette con un bel paletto. Il suo culto però è ancora vivo, grazie all’opera di un gruppetto di satanisti della domenica, che, in numero di 4, si prodiga per riportarla in vita allo scoccare della 25° luna. Verrebbe da chiedersi, senza trovare risposte, il perchè di tutto ciò e a quale giusta ricompensa anelano i malvagi per aver indossato tutto il tempo una ridicolissima tutina rossa e preparato filtri fumosi da offrire alle narici delle signorine inconsapevolmente votate al sacrificio.

Quando ai piani alti del castello si dà inizio alla festa grande per il fidanzamento di Laureen, figlia del neo proprietario, nonchè guarda caso, copia carbone della stregaccia, una serie di eventi nefasti lascia presagire il peggio. Non che la suddetta festa sia un granchè in realtà, desiderosi di andarsene al più presto, tutti i convitati inventano balle clamorose pur di tagliare la corda, mentre l’unica che sembra effettivamente divertirsi è l’insopportabile Steffy, intepretata da un’altrettanto insostenibile Stefania Fassio, colpevole di una comicità da antologia del trash. Così, senza saperne il perchè, queste persone si trovano loro malgrado solitarie nel castello, luogo infernale in cui il Male inizia a insinuarsi con un disegno probabilmente noto solo al regista-sceneggiatore.

Tutte le situazioni che si presentano, si risolvono con una rapida discesa negli oscuri sotterranei, dove, naturalmente una alla volta, le malcapitate verranno offerte alla strega Isabella, che cadavere, aspetta il giorno del suo ritorno. In una simile dissestata unicità succede proprio di tutto e quando viene raggiunto il massimo lisergico possibile, ecco tirato in mezzo anche il solito Conte Dracula, che, a quanto pare, era l’amichetto della strega.

 Tutte le scene messe in piedi sembrano realizzate con la recondita intenzione di mostrare poppe a profusione, offerte con ostentata generosità da tutte le attrici nelle loro giuste fattezze ad ogni occasione. In un delirio sopra ogni genere e senza soluzione di continuità, con un’alternanza folle tra notte e giorno – anche nella stessa sequenza – del tutto straniante, si arriva allo scontro finale, con tutto il suo carico di atroci siparietti, triangoli amorosi gratuiti e tanta, tanta psichedelia. Il resto della storia ci viene fornito a pezzi, senza offrire spiegazioni agli eventi che si susseguono con assoluta casualità.

 Privo di una connessione logica razionale, Polselli confeziona una pellicola allucinogena dove l’intera vicenda si dipana tra silenzi interminabili, luci colorate e primi piani intensi. Va da sè che in un contesto simile la storia si perda immediatamente per far spazio a visioni più o meno acide e situazioni pruriginose. Girato nel 1971 interamente al Castello di Balsorano (L’Aquila) e presentato soltanto due anni dopo per cavalcare l’onda del filone decamerotico, “Riti, magie …” con i suoi evidenti scarsi mezzi, vorrebbe inserirsi nel solco dell’horror-erotico, ma manca clamorosamente il primo obiettivo e si arena sul secondo.

Top Sensation

Cosa ci fa una linguacciuta capretta tra le gambe della Fenech? E Rosalba Neri che gioca con dei candelotti di esplosivo? E ancora, uno yacht incagliato che potremmo tranquillamente chiamare Desiderio? Ah, c’è anche qualche omicidio, tanto per non farci mancare proprio nulla.

Tutto questo esiste davvero, anche se del bizzarro quadro appena descritto pochi hanno avuto il piacere di fare la conoscenza. In piena estate del 1968, Ottavio Alessi, con la complicità del produttore Franco Cancellieri, mette in scena Top Sensation, ovvero la sua personale visione di thriller erotico, votato molto più alla componente lubrica che al resto, anche a discapito della trama. La sfortuna – o fortuna, a seconda dei punti di vista – della pellicola in questione è stata proprio la sua miscela esplosiva di scene forti, che all’epoca proprio non potevano passare inosservate.

Girato con un budget ai limite del miserabile, il film mostra quello che poteva meglio permettersi: generose carrellate sui corpi delle fanciulle in fiore protagoniste della vicenda in un intreccio tanto torbido quanto bislacco. La storia ruota attorno al lussuoso yacht della miliardaria Mudy (Maud De Belleroche), che preoccupatissima per la salute mentale del problematico figlio Tony (Ruggero Miti), organizza una crociera per il recupero, perlomeno sessuale, del suo giovane rampollo. In compagnia di un bizzarro campionario di umanità, la padrona di casa non ha altro pensiero se non quello di spronare la sua comitiva al bene primario del figlio. A tale scopo si prodiga la coppia scoppiata, in odore di affari, Aldo e Paola (ovvero Maurizio Bonuglia e Rosalba Neri) – lui, platinatissimo maschio alfa che maneggia con disinvoltura tutto l’equipaggio; lei,  splendida dinamitarda, vestita di costumini (se e quando ci sono) di latex e fucile d’ordinanza, nonchè amante occasionale della riccona – disposti a tutto, ma proprio a tutto, pur di mettere in tasca un mucchio di bei soldoni. Completa l’equipaggio, la riluttante entreneuse Ulla, assoldata appositamente per Tony, interpretata da nostra signora Edwige.

La situazione degenera quando, approdati su un’isola pressochè deserta, i nostri eroi fanno la conoscenza della bella pastorella Beba (Eva Thulin) e del suo cialtronissimo marito Andro (il caratterista Salvatore Pontillo, cui viene affidata la linea comica). Tony si invaghische della nuova conoscenza femminile e l’occasione si fa troppo propizia per lasciarsela sfuggire. Così, fatta salire Beba sull’imbarcazione, tutti si prodigano per irretire e favorire l’accoppiamento tra l’isolana e il solitario giovanotto, anche se per dovere di cronaca, saranno solamente le due splendide fanciulle a godere della nuova presenza a bordo. Il problema però nasce all’arrivo del corpulento consorte alla ricerca della propria dama. Le donne tentano con un certo successo di distrarlo, mentre giù in cabina succede il peggio, perchè il disagio mentale di Tony va ben oltre qualche rotella male oliata..

Bisogna perciò disfarsi al più presto di un cadavere e  c’è ancora una persona di troppo e nessuno vuole rinunciare ai profitti promessi.

Epurato del suo alone di sacralità e misticismo al tempo stesso, sotto la polvere dei suoi abbondanti 40 anni, Top Sensation resta un film che in qualche modo merita la visione, per quanto questa sia possibile. La pellicola vanta tuttora pochissimi passaggi televisivi in versione se possibile ancora più sforbiciata dalla morale televisiva. L’edizione rilasciata per il mercato americano, dal titolo “The Seducers”, offre invece una panoramica più ricca su quanto è stato messo all’indice, anche se il claim un’orgia di violenza e terrore suona un po’ troppo rumoroso. Quindi italiani, non aspettatevi quei quasi 5 minuti in cui si consumano triangoli saffici, amori caprini e relazioni ambigue al limite dell’incesto, in quanto sacrificio votivo all’altare della censura. Le sequenze proposte offono un bizzarro intreccio di commedia scollacciata e giallo, senza mai perdere di vista la bussola dell’erotismo a go-go. Top Sensation va preso per quel che è, un film fuori dagli schemi girato intorno al vuoto cosmico: manifesto di un’epoca forse ormai troppo lontana che con la scusa di un giallo mette in scena un softcore.